DUE SETTIMANE A SARAJEVO
Quest’estate sono partita per la Bosnia insieme ad un gruppo di nove missionari che con me hanno deciso di trascorrere due settimane mettendosi a servizio.
Siamo quindi partiti per Gromiljak, un paese ad un’ora da Sarajevo, e siamo stati ospitati nella casa delle suore Ancelle del Bambin Gesù. Qui siamo rimasti una settimana per prestare servizio come animatori del campo estivo organizzato per i bambini del posto.
In seguito, ci siamo spostati a Sarajevo, a Casa Egitto, casa madre della congregazione: qui sono ospitate circa dieci ragazze tolte alle famiglie dai servizi sociali e poi affidate alle suore. La seconda settimana l’abbiamo dedicata ai bambini di una scuola materna a cui la casa presta alcune aule, abbiamo inoltre dato una mano alle suore per la manutenzione della casa e nelle mansioni quotidiane.
Sono partita con tante aspettative, con tanti pensieri e con tante domande ma soprattutto credevo di sapere che cosa fosse la speranza. Sono partita pensando che la speranza fosse quella cosa che ti tiene acceso il cuore nel buio della quotidianità, quella cosa che, nonostante le fatiche della vita, ti tiene vivo, ti fa respirare.
Sono tornata senza aver trovato tante delle risposte che cercavo ma sono certa di essermi portata a casa la definizione di quella che è la vera speranza.
Speranza sono gli occhi di Matea, una bimba di sette anni che abita con le suore perché portata via da un matrimonio saltato per dipendenze e malattie; una bimba che mi ha detto che da grande sposerà il suo compagno di classe di cui è innamorata.
Speranza è suor Nikolina, di ventisette anni che ha cominciato a vivere con le suore quando ne aveva quattordici, che ha capito che quella era la sua strada nonostante fosse lontana da casa perché lì si sentiva bella, realizzata e al posto giusto; speranza è lei che si prende cura delle ragazze di Casa Egitto come fossero le sue figlie, vestendole e agghindandole con mollette, collane e ciappini tutti in tinta.
Speranza è la signora di ottant’anni che mi ha fermata in tram perché ha sentito che parlavo italiano: la notte aveva fatto le tre per tenere aperto il suo bar perché crede nei giovani e perché lei, la gioventù, l’ha passata sotto le bombe.
Speranza è Suor Annamaria che parla di suo fratello sopravvissuto ad un proiettile con la serenità di chi perdona, di chi non è interessato dalla nazionalità del cecchino, di chi ha quella pace nel cuore che solo Dio può portare.
Speranza sono tutte quelle persone che sono tornate nella loro Sarajevo, che vivono in case ancora in costruzione o con i buchi dei proiettili sulle pareti; sono tutte quelle persone che nella loro quotidianità passano accanto ai segni sul cemento dei colpi di mortaio che hanno ucciso i loro amici o parenti; speranza sono tutte quelle persone che continuano ad abitare vicine di casa con altre, di religione o nazionalità diverse, scambiandosi ricette e prestandosi il latte.
Tornata a casa ho capito che la vera speranza la si trova negli occhi e nei cuori delle persone, che è davvero quella luce che illumina le fatiche quotidiane e che tiene i cuori ardenti. Ma più di ogni altra cosa ho capito che la speranza è un dono contagioso, un dono immenso che necessita soltanto di essere chiesto.
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Marta Maria Guggi